Il miglior ricordo di don Enrico? Le sue parole: eccole. Venerdì i funerali

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Concorezzo. I ricordi sono tanti. Ci sono quelli personali (nostri e della redazione), di quando don Enrico passava per le vie del paese in bicicletta o, durante le benedizioni, si fermava a sfogliare il vocabolario di latino e a informarsi sui programmi didattici. Ci sono i ricordi dei cittadini, quelli battezzati, quelli sposati o quelli genuinamente e paternamente consigliati e confortati dal "parroco". Ci sono le parole, tante e vere.
Poi ci sono le sue parole, quelle che con gentilezza ed eleganza donava non solo dal pulpito della chiesa parrocchiale, ma ad ogni occasione di incontro.
Un anno fa, il 4 novembre, don Enrico celebrava la festa del paese insieme ai suoi 60 anni di sacerdozio. Questa la sua omelia: leggendola si respira la sua naturale spiritualità, la sua serenità di sacerdote e uomo, la sua rarità.
Una presenza che ha arricchito Concorezzo dal 1970 (anno in cui arrivò in paese restando parroco fino al 2006) ad oggi. I funerali saranno celebrati venerdì 25 ottobre alle 15 nella chiesa dei santi Cosma e Damiano.
La salma farà poi ritorno ad Asso, piccolo e antico borgo in provincia di Como.

Ecco le sue parole. 

Carissimi fratelli e sorelle, la motivazione di fondo della nostra celebrazione liturgica è questo 60°, mio e di don Pasquale, di sacerdozio. Il Signore me l’ha fatta veramente grossa e mi ha regalato 60anni di vita sacerdotale. La parola ora tocca a me (chissà perché tocca sempre a me), comunque la faccio molto volentieri, sperando che la parola che nasce da questo pulpito coincida il più perfettamente possibile con la volontà e l’intenzione di Gesù Cristo; solo in questo caso allora la mia parola diventa parola autorevole, capace di portare la verità nel vostro cuore e di condurre tutti quanti sulla via di Gesù Cristo. E allora che cosa devo fare? Siccome la ruggine oramai prende un poco la memoria, vi leggerò - scusate - qualche pensiero tra quelli che abbiamo meditato insieme nel giorno preciso del 60°, il 7 giugno di questo anno solare.

Il tema è ovviamente il prete. Che ci sta a fare in questo mondo il prete? E chi è questo prete? Mi sembra di rispondere che egli, il prete, solo ha il privilegio di chi sosta nella terra di nessuno; è posto al confine tra due mondi; riceve colpi dalle due opposte direzioni. Ciò non è irreale né tanto meno umoristico perché la storia ci fa rivivere, per esempio, il dramma di magnifiche creature di confine, come Abramo e Mosè: perchè furono intermediari, conobbero deserti, tradimenti di popoli, inesorabili sanzioni di Dio, solitudini, stanchezze mortali, ansietà, enormi promesse lontane, ma esili avveramenti, naufragi, patiboli immediati.

Allora possiamo dire, senza paure di smentite, che il prete è duplice e uno: è costretto ad esprimere realtà che sono fuori dallo spazio e dal tempo, con una voce che nello spazio si perde e che della marcia serrata del tempo risente tutte le tonalità. Il prete ha accettato il rischio di diventare testimone delle cose invisibili, quando forse il suo corpo ingombrante, del quale sono evidenti le schiavitù e le rivolte, rende il cammino a tali realtà più difficile e disseminato di ostacoli. Parla di terribili e consolanti sproporzioni tra l’istante e l’eterno. Lui, costretto spesso a mendicare le briciole più insignificanti della materia e della vita, si erge ad araldo delle cose venture, lui che é costretto a vivere tra le rovine e i detriti del passato. Si accanisce a distribuire la vita lui che compie ogni ora gesti e riti di morte.

Così il prete vive nel mondo tutte le sproporzioni che lo espongono al tormento del ridicolo: quando parla, quando tace, quando ride, quando mangia, quando chiede, quando dona, quando trema di freddo, di isolamento o di paura. Ecco perché chi avvicina il prete ha sempre l’impressione di trovarsi davanti a qualcuno che non sa il suo mestiere. Perché per ogni uomo il mestiere è difficile (se mestiere di uomo e non di macchina), solamente il prete non lo imparerà mai il suo, se vuole essere veramente quello che deve essere: pienezza di umanità e pienezza di Cristo.

Qual è allora la statura del prete, anche nell’intimo non apprezzamento dei suoi non amici? Appare ancora nei dintorni più precisi se si valuta ciò che al prete chiede il suo avversario:

gli chiede purezza chi ha deformato l’uomo fino a renderlo solo un groviglio di libidine; gli chiede amore chi afferma l’impossibilità per l’uomo di uscire da sé per comunicare con gli altri; gli chiede eroismo chi ha trasformato la vita a documentare la nuda bestialità delle nostre origini e la quotidiana conseguente bestialità del nostro agire.

Ogni esigenza, anche se contraddittoria, è lecita di fronte al prete. Lo si vuole presente ed assente, umano fino a condividere con questo mondo l’ossessione del sesso e inumano fino a condividere la pesante insensibilità del granito. Lo si carica di sarcasmo se appare raffinato, lo si considera come un lebbroso se è rude; lo si cerca, però, nel segreto del suo nido quando si ha bisogno di forza, di luce, di guida; e, magari, si fanno gli scongiuri maggiori quando lo si incontra per la strada.

Il prete non va giudicato per quello che è, ma per quello che ha accettato di essere, per la sua tensione verso chi gli chiede ogni giorno un aiuto, ogni ora, nelle sue piccole ufficiali necessità di collegamento tra il mondo di Cristo e il mondo dei dannati della terra. Noi riusciamo a capire quante esigenze, istanze di anime, credenti e non credenti, si alzano verso il prete. E allora saper ascoltare, meditare, andare incontro a tali istanze, può significare per il prete non contristare lo Spirito e accogliere il grido di una immensa indigenza spirituale.

Ricordiamoci però che un mondo morto, appunto perché morto, esige infinitamente di più che un mondo vivente: ai morti occorre dell’altro sangue se dobbiamo risorgere, ma il sangue esce soltanto se si apre una vena o il proprio cuore. Aiutare a guarire richiede moltissimo e non solamente una mano che si posi sulla fronte. Un santo per riscaldare un intirizzito divise con lui il mantello; ma io non ho mai ritenuto molto santo quell’uomo perché si tenne l’altra metà per sé. Strana, paradossale coincidenza tra la richiesta dell’uomo e il grande monito silenzioso di Cristo: per redimere, Lui non ha dato metà del suo mantello, ma la totalità del suo sangue rosso e vivo.

Carissimi fratelli e sorelle, preghiamo insieme perché vi parla, gli altri sacerdoti e tutti quanti, capiscano la totalità della donazione sacerdotale ai fratelli e alle sorelle che incontrano per la strada e sentano sempre la vicinanza del calore di Gesù Cristo, che sostiene ogni nostra fatica. E così sia.

Don Enrico Vago